"La rivincita della psicoanalisi"

"La rivincita della psicoanalisi"

Articolo di Olivier Burkeman

Riporto qui alcuni stralci di un interessante articolo che fa luce sull'approccio psicoterapeutico di tipo psicoanalitico, mettendo in evidenza le differenze tra gli altri tipi di orientamento.

Secondo la psicoanalisi il malessere psichico è caratterizzato da una certa complessità. Prima di essere eliminata, la sofferenza psicologica deve essere compresa. Da questo punto di vista la depressione non somiglia tanto a un tumore quanto a un dolore all’addome: ci sta dicendo qualcosa e dobbiamo scoprire cosa. E la felicità – ammesso che sia raggiungibile – è qualcosa di molto più ambiguo. Non conosciamo davvero la nostra mente, e spesso preferiamo lasciare le cose come stanno. Anche se di solito non ce ne rendiamo conto, vediamo la vita attraverso la lente dei nostri primi rapporti. Desideriamo cose contraddittorie e qualsiasi cambiamento è lento e difficile. La nostra mente cosciente è solo la punta di un iceberg che emerge dal buio oceano del subconscio, che non può essere esplorato con tecniche semplici e standardizzate.

Nell’ottobre del 2015, un gruppo di ricercatori della clinica Tavistock di Londra ha pubblicato i risultati del primo studio rigoroso fatto dal servizio sanitario nazionale britannico (Nhs) sulla psicoanalisi a lungo termine per curare la depressione cronica. La conclusione dello studio è che, per le persone gravemente depresse, diciotto mesi di psicoanalisi funzionano meglio – e hanno effetti più duraturi – di altri tipi di trattamenti, tra cui la terapia cognitivo comportamentale. Due anni dopo la fine di diverse terapie, il 44% dei pazienti sottoposti a psicoanalisi non rientrava più nei criteri della depressione grave, mentre tra gli altri pazienti la quota arrivava solo al 10%. 

In altri tipi di orientamenti teorici cambiare le cose appare inizialmente più semplice: basta individuare e correggere qualche errore di ragionamento, invece di cercare i motivi segreti della nostra sofferenza. Secondo questi approcci sintomi come la tristezza o l’ansia non sono necessariamente indice di vecchie paure rimosse, ma intrusi di cui liberarci. Nella psicoanalisi invece il rapporto tra analista e paziente è una sorta di provetta in cui il paziente riproduce il modo in cui si relaziona agli altri per capirlo meglio. Non si tratta quindi di una situazione in cui il paziente cerca solo di liberarsi di un problema.

In fondo tutti siamo consapevoli del fatto che la nostra vita interiore e i rapporti con gli altri sono estremamente complessi.

Nel 2004 da una meta-analisi emerse che per molti disturbi una terapia analitica breve era efficace quanto qualsiasi altro metodo, e alla fine quelli che ne seguivano una stavano meglio del 92% degli altri pazienti prima della terapia. Nel 2006 anche le conclusioni di uno studio condotto su circa 1.400 persone che soffrivano di depressione, ansia e disturbi correlati si rivelarono favorevoli alla terapia psicodinamica breve. E uno studio del 2008 sul disturbo borderline giunse alla conclusione che, a cinque anni dalla fine del trattamento psicodinamico, solo il 13% dei pazienti ne soffriva ancora, rispetto all’87% di chi non era stato sottoposto alla cura. Non tutti questi studi confrontano la terapia analitica con quella cognitiva: spesso la mettono a confronto con “le solite cure”, espressione che copre qualsiasi tipo di terapia. Ma le differenze più evidenti tra i due metodi emergono un po’ di tempo dopo la fine della terapia. Se si chiede alle persone come stanno subito dopo il trattamento, la terapia cognitivo comportamentale sembra convincente. Ma a distanza di mesi o di anni spesso i benefici sono svaniti, mentre gli effetti delle terapie psicoanalitiche sono rimasti o sono addirittura aumentati, il che fa pensare che queste terapie ristrutturino la personalità in modo duraturo, e non aiutino semplicemente le persone a controllare i loro stati d’animo. Dai risultati dello studio commissionato dall’Nhs britannico e condotto nella clinica Tavistock è emerso che i pazienti affetti da depressione cronica sottoposti a terapia psicoanalitica avevano il 40% di possibilità in più di andare almeno parzialmente in remissione, durante i sei mesi della ricerca, rispetto a quelli sottoposti ad altri trattamento. L'elemento comune ai diversi tipi di psicoterapia che sembra contare di più è la presenza di una persona comprensiva e attenta e di un paziente che vuole veramente cambiare.

Inoltre quello che portiamo in terapia (per esempio la depressione) potrebbe non essere quello che emerge dopo diverse sedute (per esempio la necessità di prendere coscienza di un orientamento sessuale che temiamo non sia accettato in famiglia). Questa promessa del controllo avanzata da terapie diverse da quella psicoanalitica è seducente, ma non è forse meglio prendere coscienza di quanto poco controllo abbiamo sulla nostra vita, le nostre emozioni e i comportamenti degli altri? Freud ci ha lasciato la consapevolezza che non dobbiamo necessariamente aspettarci una vita del tutto felice né presumere di poter mai sapere cosa succede dentro di noi. Anzi, spesso preferiamo continuare a ignorare certe verità inquietanti. “Quello che succede nella psicoterapia”, ha detto Pollens (lo psicoanalista intervistato), “è che molti vengono a chiederci aiuto e subito dopo cercano di impedirci di aiutarli”. Il suo sorriso sottolineava l’assurdità della situazione, e forse di tutta l’impresa terapeutica. “Come fai ad aiutare una persona quando ti dice, in un modo o nell’altro, ‘Non aiutarmi’? La psicoanalisi è tutta qui”

Scritto tratto e adattato da un articolo di Oliver Burkeman pubblicato su "The Guardian" il 7 gennaio 2016, tradotto in italiano e pubblicato da Internazionale nel n. 1138 del 29 gennaio/4 febbraio 2016. 

Allegati

internazionalela-rivincita-di-freud-145.pdf