Riflessioni psicoanalitiche sul lockdown
I diversi effetti psicologici della chiusura. Psicologa Cantù
In Italia l’imposizione del lockdown severo è durata due mesi e mezzo. In seguito l'alternarsi dei periodi di chiusura a quelli di apertura ci ha abituati ad un avvicendarsi di momenti in cui siamo in casa a situazioni di parziale libertà. Soffermandoci sui mesi di lockdown rigido, è stato abbastanza sorprendente notare come tutta la popolazione si sia rapidamente adattata a regole così straordinariamente inconsuete: non poter uscire di casa, se non per gravi motivi da giustificare, lavorare e studiare da remoto, abbandonare incontri, convegni, riunioni, sport, cene, tutte le abitudini del vivere comune nelle nostre città. Eppure, inizialmente non c'è stato nessuno schiamazzo, nessun incidente, nessuna ribellione: le persone hanno obbedito. Si potrebbe obiettare che eravamo costretti, ed è vero; ma è interessante chiedersi se non vi sia stato qualcosa di più, qualcosa di più profondo e apparentemente inspiegabile per cui, almeno in alcuni di noi, il trauma esterno ha intercettato nuclei inconsci interni, facendone derivare una tendenza a cui si può dare il nome di claustrofilia.
Si è molto parlato, in tema di Covid anche nei dibattiti psicoanalitici, di alcuni aspetti in particolare: il dover affrontare un nemico invisibile e occulto ne ha fatto un tipo particolarissimo di trauma, più vicino al perturbante teorizzato da Freud che al trauma vero e proprio; la solitudine e il distacco dai propri cari; la perdita della libertà e dei contatti umani; le conseguenze e l’impatto psichico, ancora in gran parte da studiare, del lavoro da remoto, anche del lavoro psicoanalitico a cui tutti ci siamo adattati. Ma si è parlato molto meno del fenomeno opposto alla voglia di fuga e libertà, fenomeno a cui alcuni media italiani hanno dato il nome di “sindrome della capanna”: il ritiro nel claustro come elemento di fascino e richiamo, il ritiro nel nido, nel perimetro sicuro della nostra casa e delle nostre sicurezze, legittimati dal fatto che non siamo noi a sceglierlo, apparendo indolenti e pigri, ma un Padre ce lo impone, lo Stato. Di fronte al rassicurante nome del Padre, quello che sarebbe stato un ritiro che non ci saremmo permessi, è diventato invece legittimo. Una sorta di larvato, forse diffuso desiderio inconscio, ha potuto timidamente venire alla coscienza: claustrofilia. Il termine deriva dal latino claustrum (luogo chiuso) e filia (amore, tendenza): amore per i luoghi chiusi. Ma psicoanaliticamente, che cosa vuol dire? Se ipotizziamo che lo stato claustrofilico consista in qualcosa di piacevole, dove l’Io basta a sé stesso, significa che tutta la libido si ritira nell’Io, si stacca da investimenti esterni, e l’essere è, per così dire, autosufficiente. L’altro è sempre rischioso, mutevole, capriccioso, può deluderci e abbandonarci, può farci richieste eccessive come anche appagarci, ma questo risultato non è mai certo. Il ritiro può avere delle caratteristiche seducenti, protettive e può causare dipendenza.
Anche in letteratura troviamo efficaci descrizioni di questo stato d'animo; Sartre considerava, al pari di Dostoevskij, la libertà come una condanna per l’essere umano, una condanna che ci costringe a scegliere. Volete fare un torto a un uomo? Si chiedeva Dostoevskij: dategli la libertà. Che cosa c’è di più terribile nella libertà? Perché la sfuggiamo? La responsabilità: ciò che rende persecutoria la libertà per l’essere umano, è il peso della responsabilità.
Il periodo di chiusura forzata dovuto all'emergenza sanitaria è stata affrontata dalle singole persone nei modi che hanno trovato migliori in quel momento: alcune persone hanno percepito nel periodo di lockdown che non dovevano più scegliere, non dovevano più invidiare le vite degli altri. Sospesi come in una bolla, un limbo apparentemente senza tempo come nel grembo materno, si sono sentiti deresponsabilizzati. Per queste persone la chiusura in casa li ha costretti ad un contatto con sé stessi, ad una proficua solitudine creativa che non si sarebbero permessi, o che avrebbero temuto o maniacalmente negato; per qualcuno si è trattato di un’esperienza fruttuosa. Per altre persone invece si è trattato di un vissuto diverso, ovvero di quella che Freud chiamò istinto di morte, o death drive. Il death drive non è il desiderio di morte: è la morte del desiderio. Non è la morte comunemente intesa, ma è il Nirvana, letteralmente ‘spegnimento del soffio’, concetto delle filosofie induiste e orientali. È la straordinaria, incomprensibile spinta al ritorno all’inorganico, al prima della vita, allo spegnimento delle tensioni (anche delle tensioni della libertà), è il rifiuto alla sollecitazione di Eros, che non necessariamente equivale a rifiuto della vita, ma al desiderio che anima la vita. Può darsi che in alcuni casi la bolla di sospensione dal reale e dal desiderio che il lockdown ha costituito, ha rappresentato per alcuni di noi un’aspirazione inconfessabile inconscia che si è nutrita di tutte queste variabili, e forse altre, che normalmente vive contenuta tra le varie esigenze e compromessi, e che ha potuto, protetta dalla Legge e da un tempo circoscritto, liberamente esprimersi.
Articolo tratto e adattato da uno scritto di Rossella Valdrè. Per approfondimenti: